Una sera di tarda estate di diversi anni fa, di ritorno dalle vacanze, in coda in autostrada. Per passare il tempo e far sì che mio figlio legga qualcosa di diverso dai fumetti, inserisco nel lettore CD un audiolibro, “Il Mago di Oz”. L’ho letto da bambina e non lo ricordo quasi, quindi mi faccio prendere dalla voce recitante, e poiché la coda si è fatta sempre più lunga, inizio a perdermi dietro alle avventure della piccola protagonista Dorothy e dei suoi bizzarri amici, incontrati per caso nel percorso che dovrebbe riportarla a casa: lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta, il Leone Vigliacco…
Un gruppetto piuttosto scalcinato, a prima vista: a ciascuno manca infatti disperatamente qualcosa per essere felice.
Alla bimba, trascinata da un tornado in questo mondo misterioso, manca la vita normale: la fattoria nel Kansas, immersa in un panorama deprimente, ma allietata dall’affetto degli zii contadini (perché la fanciulla, poveretta, è anche orfana…).
Allo Spaventapasseri manca il cervello, così lui dichiara, e per via di questa sua supposta stupidità è costretto a condurre una vita insulsa, trascorsa a tentare, inutilmente, di spaventare i corvi.
Al Boscaiolo di Latta manca il cuore, strappatogli – assieme alle altre parti del suo precedente corpo umano – dal sortilegio di una strega, invidiosa del suo amore per una ragazza; un fabbro gli ha ricostruito braccia e gambe in latta, ma il cuore… Beh, quello non c’è più, e il taglialegna ne sente terribilmente la mancanza.
Il Leone Vigliacco, infine, è privo della più basilare dote per un leone, il coraggio: è un terribile fifone, e lo dichiara apertamente.
Il mondo fantastico – tanto bello quanto insidioso – dove si svolge l’avventura dei personaggi, è diviso in regni, equamente ripartiti nei quattro punti cardinali fra streghe cattive e streghe buone, di volta in volta ostacolo o risorsa per la bimba. Al suo centro, il Regno di Smeraldo, dominio del misterioso, ma potentissimo, Mago di Oz, l’unico che pare possa esaudire tutti i possibili desideri, dunque anche quelli, apparentemente irrealizzabili, dei quattro amici.
Il loro viaggio è una sorta di road-movie fantastico, che rappresenta un inno all’amicizia disinteressata e insieme un’elegia della mitezza (una dote che oggi pare quanto mai in disuso, nel mondo del successo a tutti i costi…), incarnata nella piccola protagonista, incapace di azioni aggressive anche nei confronti del più terribile dei nemici. In nome di questa grande amicizia i quattro, di volta in volta, opereranno le loro scelte, a prima vista decisamente votate al fallimento, ma che in seguito si riveleranno invece chiave di volta per il successo delle varie imprese.
Infine, eccoli finalmente raggiungere il Mago di Oz, personaggio dalle mille identità, ma che nessuno ha mai visto davvero, di cui di sa solo che, senz’altro, esaudirà il desiderio di ciascuno… l’udienza è individuale, quindi per la prima volta il gruppo di amici si divide, ed ognuno vede Oz in una forma diversa, anche se sempre enormemente potente ed enigmatico…
Oz chiede ai quattro di compiere un’azione apparentemente impossibile: uccidere l’ultima temibile strega cattiva, e dovrà essere proprio la bambina a farlo. In cambio, Oz darà loro ciò a cui massimamente aspirano, ciò di cui ciascuno sente di più la mancanza.
Gli amici partono per quest’ultima avventura, e riusciranno nell’intento proprio usando ciò che ciascuno pensa di non avere: il coraggio del Leone, il cuore affettuoso del Boscaiolo, l’acume dello Spaventapasseri, e, per quanto riguarda Dorothy, la forza della gentilezza, che le farà scoprire con stupore di avere già con sé gli strumenti necessari ad annientare la malvagia creatura dell’Ovest.
Lieti di aver finalmente superato tutte le prove, gli amici si recano dal Mago a reclamare i doni di sapienza, emozioni, relazioni di cui si sentono privi. Ma il “supposto sapere” che i quattro attribuiscono al mago si rivela, alla fine del percorso, soltanto un bluff: il mago si scopre essere solo un omino macilento, che è stato anni prima investito suo malgrado di questo ruolo, e che si è reso misterioso, cambiando continuamente sembianze, proprio perché le aspettative dei cittadini del regno non venissero deluse… “Un imbroglione, insomma!”, come lo apostroferà Dorothy, affranta.
Ma l’ometto, alla fine di conti, non si rivelerà poi così inutile, dal momento che, se è evidente da tempo al lettore che i protagonisti sono in realtà oltremodo dotati di ciò che domandano al Mago, essi potranno accorgersene solo grazie a lui, il Grande Oz, ed al percorso compiuto alla sua ricerca.
È il momento che il gruppo di amici si separi, perché ciascuno dei quattro amici possa seguire il proprio sogno… L’audiolibro finisce, e anch’io devo separarmi da questa storia che mi ha divertito e fatto pensare.
In particolare, e qui arrivo al motivo del titolo di questo mio scritto, mi ha fatto pensare al mio essere una psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, che si occupa particolarmente del disagio di tanti giovani: sono infatti quotidianamente confrontata con l’entusiasmo, la freschezza, la tenerezza, l’energia, ma anche la rabbia, l’agitazione, l’aggressività e il disagio che l’adolescenza dei nostri ragazzi porta con sé.
Quanti sono i desideri, le mancanze, le difficoltà che loro veicolano, o che noi adulti attribuiamo loro? “È intelligente, ma non sa concentrarsi”, “sta sempre chiuso in camera, davanti a un video, senza amici”, “va bene a scuola, ma non è capace di relazionarsi con i pari”, “gli difetta completamente l’autocontrollo”… E ancora, : “Mi sento vuota”… “mi mancano gli amici”… “i compagni mi escludono”… “non ho la ragazza”… “mi manca il fisico giusto”… “mi manca ogni stimolo”… “non ho memoria”… “mi manca una famiglia che mi capisca…”.
Sembra che in questo momento storico la dimensione della mancanza, del desiderio insoddisfatto, sia qualcosa di estremamente problematico, anche sul piano culturale e sociale: il nostro è il mondo del “tutto e subito”, della prestazione immediata e non rimandabile, cristallizzato in un eterno presente, a fronte di una dimensione di futuro che oscilla fra le aspettative irrealistiche di successo assoluto, in cui “si diventerà Qualcuno” (come recitava un vecchio rap di Caparezza) e la consapevolezza di una altrettanto assoluta precarietà, in cui si rischia di scivolare nell’essere… “Nessuno”.
È a questo punto che si inserisce la figura dello psicologo, nuovo immaginario taumaturgo che si suppone in grado di ricostruire l’immagine perfetta di sé e dell’Altro, di restituire l’integrità perduta, di ridare le parti mancanti: il cervello, il cuore, il coraggio…, o, come si usa dire oggi, di fornire almeno le “strategie” (cognitive, emotive, relazionali…) per rendere tali mancanze meno avvertibili agli occhi degli altri. Egli appare come “l’esperto del cervello”, mago della nuova magia contemporanea rappresentata da una dilagante idea di tecno-scienza, che grazie a molecole d’avanguardia, unitamente a tecniche per cambiare il proprio modo di pensare, comportarsi, provare emozioni, potrà “aggiustare”, possibilmente in fretta, chi si è inceppato, chi non “funziona” più….
Lo psicologo formato dalla psicoanalisi non ha tanto di mira l’educazione, o la rieducazione, a nuove strategie comportamentali; sono altre, peraltro, le agenzie educative che a ciò si dedicano, spesso con competenza (scuola, famiglia, gruppi sportivi, scout… tanto per citarne alcune). Vorrei piuttosto proporre un’altra funzione dello psicoanalista che opera con i giovani. Essi spesso sentono l’incompiutezza e la difficoltà dell’adolescenza come un fardello intollerabile, ed è per questo che mi hanno fatto pensare a Dorothy e compagni. Dunque, il terapeuta può essere pensato non tanto come un reale “mago-esperto”, quanto piuttosto come una sorta di Mago di Oz: investito inizialmente di grandi aspettative e idealizzazioni, grazie al suo operare (invero un po’ misterioso, fatto più di interrogativi che di risposte) potrà permettere a chi lo interpella di scoprire cose di sé che non sapeva, e che solo nella relazione del transfert terapeutico possono emergere. Dall’enigma, dallo spaesamento che l’interpretazione dell’analista può generare nell’Io dell’analizzante, il soggetto imparerà, come i personaggi del libro, a “farsene qualcosa della propria mancanza”, potrà cioè cogliere qualcosa di nuovo e inedito, un nuovo sapere su di sé che gli permetterà di condurre un’esistenza più in linea con il proprio desiderio profondo.
In questo percorso, l’analista dovrà lavorare affinché le fantasie sulla sua figura di “mago-esperto” possano via via diminuire, tanto che il soggetto arrivi magari a dirsi, alla fine del percorso, che, se le cose vanno meglio, non è che sia proprio perché l’analista-esperto gliele abbia insegnate… piuttosto lui le ha in qualche modo imparate a partire da sé, dalle parole che ha pronunciato nella stanza di analisi, e che l’analista, con i suoi rari interventi, ha però sottolineato, interrogato, lasciato in sospensione, rese più opache o, al contrario, inaspettatamente nitide…
Sarà il momento in cui, come Dorothy, il soggetto avrà lasciato il mondo, meraviglioso e spaventevole, della fantasticheria, per ritrovarsi finalmente proprio nel luogo e nel tempo dove desiderava essere: una fattoria grigia, in un panorama di campi grigi, nella grigia Kansas City, il tutto però illuminato da ciò che, davvero, dà colore alle cose: la coscienza di ciò che si è, il desiderio per i propri legami affettivi, unito al ricordo di separazioni finalmente possibili, di mancanze che fanno crescere perché sono ormai parte costitutiva della propria storia.